Home page

giovedì 12 maggio 2011

Il super-governatore che vieta i titoli tossici

(Il Sole 24 ore) - Riad Salameh ha avuto ancora ragione. L'uomo alla guida della Banca centrale del Libano dal '93, eletto da Euromoney e The banker magazine miglior governatore centrale del mondo per tre volte e per due volte miglior governatore del mondo arabo, ha dalla sua i numeri. Il settore bancario del Libano continua a registrare performance di tutto rispetto. Nel mezzo delle rivolte arabe Salameh, 61 anni, non ha timori per il futuro. Nel 2003 decise di vietare alle banche libanesi di acquistare titoli derivati, creando regole draconiane per preservare i depositi. Fu giudicato un reazionario. A torto.
Oggi si ripresenta il pericolo di nuovi derivati, come gli Etf, potenzialmente tossici. Ha preso qualche misura?
In Libano le banche non possono acquistare Etf con i loro fondi. Ogni derivato deve essere approvato alla Banca centrale, anche se venduto solo ai clienti. Di recente abbiamo rafforzato le misure: ogni collocamento privato, anche per meno di 20 clienti, deve essere da noi autorizzato prima di essere eseguito dai clienti.
Ma nel resto del mondo quali sono i pericoli reali?
Il problema degli Etf è che non esiste un mercato regolato. Non siamo in grado di sapere se questi strumenti siano interamente coperti, o se nascondano forme di indebitamento. E nessuno può esercitare un controllo effettivo. Specie per le commodity, come l'oro. Oggi, con i tassi d'interesse quasi a zero e con l'attuale spesa monetaria in Europa e negli Usa, le banche stanno cercando liquidità, creando entrate dalla vendita di Etf o altri derivati in un periodo in cui regole e controlli non sono sufficienti.
Torniamo al Libano. Anche nel 2010 le banche hanno registrato perfomance eccellenti.
Quali sono le ragioni?
Le nostre banche devono allocare i loro fondi nel seguente modo: un terzo al credito per il settore privato, un terzo alla Banca centrale e un terzo deve restare liquido. Una regola che comunque ci ha permesso l'anno scorso di registrare un aumento del 20% dei crediti al settore privato. Abbiamo dunque una solida e intatta base per una crescita futura.
Eppure l'Fmi ha stimato una frenata del Pil al 2,5% e un aumento del già alto debito pubblico.
Prudenza. La Banca centrale annuncia le stime a metà anno a causa della volatilità del nostro Paese. L'Fmi potrebbe rivedere questi dati. Lo scorso gennaio c'è stato un brutale cambiamento nel Governo, scatenato dalle dimissioni di alcuni ministri. E i mercati hanno reagito negativamente. I dati relativi a febbraio e marzo dimostrano però che la crescita dei depositi è ripresa, che la bilancia dei pagamenti è tornata in attivo. L'economia è rallentata, ma quando il Governo sarà costituito le cose cambieranno. Certo, la crescita del settore bancario sarà più modesta. Ma ci aspettiamo un aumento dei deposti del 5-7%, sufficiente per coprire le necessità private e pubbliche del Paese.

domenica 17 aprile 2011

Il caso Islanda

In Islanda la popolazione ha di nuovo votato NO al referendum indetto sabato scorso dal governo per il caso Icesave. Gli islandesi, per la seconda volta, hanno espresso la loro più assoluta opposizione all'accordo sul rimborso di 3,9 miliardi di euro chiesto dalla Gran Bretagna e dall'Olanda in seguito al fallimento della Icesave, società controllata dalla Landsbanki. Tutti e sei i distretti elettorali islandesi hanno votato per il "No", con una percentuale nazionale del 60%, in calo dal 93% del gennaio 2010,dimostrato così di voler respingere, ancora una volta, la proposta del governo, composto da Verdi e Social-Democratici.
Per chi non lo ricordasse, l'economia islandese è stata pesantemente colpita dalla prima onda della grande crisi finanziaria che si è abbattuta sull'isola e sul mondo intero nel 2008. Sono cadute immediatamente le due banche principali islandesi, che sono state subito nazionalizzate.
Icesave, una specie di conto arancio gestito dalla principale banca islandese (Landsbanki per l'appunto), ha sostanzialmente chiuso i battenti, essendo a quel punto incapace di rimborsare i clienti. Così, i risparmi di molti inglesi ed olandesi, i principali clienti di Icesave, sono rimasti congelati per un bel po'. Il governo inglese, per evitare spiacevoli proteste in casa propria, è intervenuto ed ha garantito i fondi dei cittadini inglesi, salvo poi presentare la nota spese all'Islanda.
Ed il nuovo governo islandese si è guardato bene dal prendere una decisione. Ha invece chiamato i cittadini alle urne per ben due volte in 13 mesi per votare a favore o contro un'ipotesi di ristrutturazione (e restituzione) del debito. E per la seconda volta in 13 mesi, il nuovo referendum - che prevedeva una lunga e comoda spalmata della restituzione fino al 2046 - ha visto il consueto verdetto dalle urne: NO.
Anche perché -  è giusto precisarlo -  in fondo Icesave è quasi interamente sostenuta, nei suoi depositi, da cittadini inglesi ed olandesi, non certo da cittadini islandesi. Quindi, se per caso non si paga, non sono certo gli islandesi a trovarsi carta straccia tra le mani. Da qui lo scontro ideologico sulla restituzione di un debito dovuto più alla speculazione straniera che non ad un'intensa opera di finanziamento dell'economia nazionale.
Il voto ha riflesso la diffusa convinzione che i negoziatori del governo non siano stati abbastanza vigorosi nel perorare il caso legale islandese. E' vero, è stato ottenuto un termine di pagamento più lungo per gli esborsi di Icesave, ma il modo in cui l'Islanda otterrà le sterline e gli euro, malgrado la propria economia sia in caduta libera, è ancora da determinarsi e tutto questo minaccia il crollo del tasso di cambio della corona islandese. Ed una simile ipotesi non è semplicemente considerabile, perché la conseguenza di un eccessivo indebolimento della valuta islandese comporterebbe la svendita del patrimonio nazionale agli speculatori stranieri. Insomma, si rischierebbe un bis in idem.
L'accordo proposto ha effettivamente abbassato il tasso di interesse dal 5,5% al 3,2%, ma ha comportato che gli interessi per il salvataggio decorressero dal 2008. Ha persino incluso la quota d'interessi-extra che convinsero gli investitori stranieri a mettere i propri fondi in Icesave. Gli islandesi consideravano questi interessi-extra come una compensazione per i rischi che furono presi dagli investitori e per questa ragione dovrebbero esser andati persi e quindi non conteggiati. Il che non è del tutto illogico.
Ora, che ogni tentativo di riconciliazione è andato fallito, la cosa probabilmente finirà in tribunale sotto l'ala dell'EFTA, European Free Trade Agreement. E poi sarà tutto da vedere cosa succederà se mai il tribunale condannerà l'Islanda a pagare. Frosti Sigurjónsson, portavoce del "No", ha dichiarato che "il rischio di accettare questo accordo è molto più grande del rischio di affrontare la cosa in tribunale, che in fondo è un nostro diritto". Così, la questione "Icesave" andrà in tribunale. Si tratta dunque di capire come andrà a finire.
Intanto par di capire che Gran Bretagna e Paesi Bassi faranno davvero la parte del leone sui resti del cadavere di Landsbanki, giacché secondo il diritto europeo "il costo di finanziamento di tali schemi deve essere supportato, in via di principio, dagli stessi istituti di credito". Questo non era, tuttavia, quello che volevano gli islandesi prima del voto; i poveri isolani avevano semplicemente intenzione di salvare la loro nazione da un'obbligazione senza fine, se si fossero iscritte le perdite delle banche all'interno dei paragrafi del bilancio pubblico, senza un piano per determinare il modo in cui l'Islanda avrebbe ottenuto i soldi per pagare. Nulla di più, ma neanche nulla di meno.
Il primo ministro Johanna Sigurdardottir ha affermato che il voto può avviare "un caos economico e politico", ma anche pagare può portare a queste conseguenze. L'anno appena trascorso ha visto la disastrosa esperienza di Grecia, Irlanda e Portogallo dopo aver portato i debiti dello scriteriato settore bancario all'interno del bilancio pubblico.
È difficile aspettarsi che ogni nazione sovrana imponga un decennio o più di depressione alla propria economia, visto che le leggi internazionali permettono a ogni stato di agire in difesa dei propri interessi vitali. Agire diversamente equivarrebbe a decidere di sottomettersi ai voleri dei banchieri, mandando al macello intere generazioni con i loro diritti civili,sociali e politici, presenti e futuri.
I tentativi dei creditori di persuadere le nazioni a salvare le loro banche con il debito pubblico è stato nei fatti, fino a questo momento, un esercizio di pubbliche relazioni. Gli islandesi hanno visto il successo ottenuto dall'Argentina da quando ha imposto un taglio drastico alle pretese dei propri creditori. Hanno anche visto la distruzione economica dell'Irlanda e della Grecia per aver cercato di pagare oltre le proprie possibilità. Hanno dunque ragionevolmente scelto di optare per una linea di difesa ad oltranza degli interessi nazionali. E dovrebbero essere presi ad esempio per questo.
 La storia recente ci racconta infatti di svariati episodi dai quali si può imparare molto. I creditori dell'Irlanda, ad esempio, non le diedero di certo buoni consigli quando le suggerirono che pagare i fallimenti delle proprie banche non avrebbe sprofondato l'economia in una crisi senza fine.
L'esperienza irlandese è un avvertimento, un esempio per gli altri paesi di cosa accade quando ci si fida delle previsioni ultra-ottimistiche fatte dai banchieri centrali, i veri signori oscuri di queste manovre tutte dirette all'affossamento degli stati sovrani.
Nel caso dell'Islanda, nel novembre del 2008 lo staff del Fondo Monetario Internazionale aveva ipotizzato che la somma di debito pubblico e privato alla fine del 2009 sarebbe arrivata al 160% del PIL, ma evidenziò che un deprezzamento del tasso di cambio del 30% avrebbe spinto il rapporto al 240% del PIL, e ciò sarebbe stato "chiaramente insostenibile". Ma il più recente bollettino sempre del FMI, datato 14 Gennaio 2011, riporta il rapporto debito pubblico/PIL  per la fine del 2009 al 308% e stima lo stesso rapporto al 333% per la fine del 2010, prima ancora di mettere nel conteggio i debiti di Icesave (!!). Insomma, delle due l'una: o gli analisti finanziari del Fondo Monetario sono degli incompetenti strapagati o, al contrario, sono particolarmente abili nel manipolare i loro numeri e le loro statistiche per rispondere ad esigenze di politica economica. Ai posteri l'ardua sentenza.
Il problema principale dell'obbligazione dell'Islanda con la Gran Bretagna e con i Paesi Bassi, a parte ciò che verrà recuperato da Landsbanki (con l'aiuto dell'Ufficio Anti-Frodi britannico), è che i soldi dovranno essere pagati attraverso il pagamento di quanto ottenuto grazie all'esportazioni. Finora, tuttavia, non ci sono stati accordi tra Gran Bretagna e Paesi Bassi per decidere quali merci e servizi islandesi dovranno essere forniti come forma di pagamento. Insomma le carte sono sul tavolo, ma alcune sono scoperte, altre no.
Si dovrebbe invece auspicare la costituzione di un gruppo di esperti che immagini e definisca la soluzione più solida possibile: nessuna nazione sovrana può infatti adeguarsi all'imposizione di una generazione di austerità finanziaria, di ristrettezze economiche e di emigrazione forzata del lavoro per pagare per i fallimentari esperimenti neo-liberisti che hanno fatto sprofondare così tante economie europee. Si spera che la dignità mostrata dal popolo islandese illumini quanti, oggi, rischiano di trovarsi a breve nelle medesime condizioni.
TIM: la tua mail in mobilità con il BlackBerry®

sabato 16 aprile 2011

Italia-Europa: si allarga il fronte degli scettici

(Movisol) - "È l'Europa, bellezza", direbbe Humphrey Bogart agli italiani sorpresi di essere stati lasciati soli di fronte all'ondata di immigrazione dal Nord Africa. Il fatto è che l'Europa non ha una politica sulla crisi africana al di là dei respingimenti, e assiste inerme all'aggravarsi della crisi su tutto il fronte sud del Mediterraneo. In questo contesto, è naturale che si cominci a ragionare sull'opportunità di rimanere in un sistema, quello dell'Euro e dell'UE, che si sta rivelando una perdita netta su tutti i fronti. Non deve destare scandalo che Berlusconi dica "o l'UE è una cosa concreta o è meglio separarsi". Lo scandalo è che sia solo lui, e che probabilmente abbai per non mordere.
Comunque, quello che solo pochi mesi fa era un tabù, e veniva denunciato solo dal movimento di LaRouche o da voci isolate come il prof. Savona, ora viene discusso sui media. Il 5 aprile, il vicedirettore di Libero, Franco Bechis, ha chiesto al governo italiano di uscire dall'euro e dall'UE, in un articolo intitolato "Lasciamo l'Europa, ci costa e non ci aiuta".
"Lasciati soli - scrive Bechis - davanti all'invasione degli immigrati. Abbandonati quando la speculazione finanziaria internazionale ha fatto sentire il morso sul debito pubblico italiano. Bacchettati però quando si tenta di difendere le aziende nazionali come altri paesi hanno fatto tranquillamente (...) (...) senza le reprimende di Bruxelles. E con le mani legate - talvolta perfino con la camicia di forza - quando provi a balbettare qualcosa di fisco o di sviluppo.
"Ma a che serve l'Unione europea per l'Italia? Da anni ci sentiamo ripetere che se l'Italietta non avesse aderito al trattato di Maastricht e alla moneta unica, saremmo tutti finiti gambe all'aria rischiando il fallimento del paese. Eppure dopo tanti anni i risultati ottenuti sono evidenti, e portano tutti il segno meno. L'Italia cresce di meno da quando è entrata nell'euro. La disoccupazione invece è salita progressivamente e inesorabilmente. Il divario fra Nord e Sud si è allargato: la spaccatura del paese è più evidente, con una parte che si sente attratta e alla pari con la locomotiva tedesca e l'altra parte destinata a sprofondare. Il debito pubblico è cresciuto esponenzialmente ed è diventato perfino più fragile di prima. Siccome l'unione monetaria è stata realizzata imponendo una moneta unica a tutti e vincoli stretti ai paesi più deboli, ma non si è fatta carico dei guai comuni (le ricchezze sono state unificate, però a ciascuno è restato il suo debito), i vantaggi per l'Italia sono stati assai piccoli. Sostanzialmente solo due: meno inflazione (ma soprattutto deflazione, che non è gran vantaggio per l'economia) e denaro meno caro, anche se ormai viene concesso con il contagocce proprio grazie alle regole internazionali.
"Tutto il resto è peggiorato. In modo così sensibile da aprire per la prima volta la discussione-tabù: e se fosse meglio uscire dall'Europa di Maastricht seguendo la Gran Bretagna che non ci è mai entrata? Che sia meglio ha osato dirlo nell'autunno scorso un economista di grido come il professore Paolo Savona, che ha addirittura implorato l'Italia di liberarsi «dal cappio europeo che si va stringendo al collo», sostituendo «il poco dignitoso vincolo esterno con una diretta responsabilità dei gruppi dirigenti. Si aprirebbe così la possibilità di sostituire a un sicuro declino un futuro migliore attraverso il re-impossessamento della sovranità di esercitare scelte economiche autonome, comprese quelle riguardanti le alleanze globali».
"Di quelle parole Savona non è affatto pentito, e, anzi, è ancora più convinto assistendo ai fatti di queste settimane. Di fronte a Libia, Tunisia, e all'incendio del Mediterraneo l'Europa politica ha brillato per assenza. Quella militare proprio non esiste, e ognuno procede in ordine sparso. L'ondata migratoria che si prepara non sembra interessare Bruxelles: l'Europa è composta in maggioranza da paesi che credono di non venirne toccati, e quindi è caso che dovranno sbrogliarsi da soli Grecia, Spagna, Francia e soprattutto Italia. Quel fantoccio di polizia delle frontiere (con sede a Varsavia) che è Frontex si è limitata a inviare una navetta rumena e due piccoli aerei per affrontare quello che giustamente Silvio Berlusconi ha definito lo «tsunami umano». I fatti di questi giorni hanno definitivamente chiarito - se mai ce ne fosse stato bisogno - che in caso di emergenza l'Italia deve cavarsela organizzativamente e finanziariamente da sola. L'Europa non le serve. Invece Bruxelles sarà più rapida di un falco quando si tratterà di fermare le norme per proteggere Parmalat, ma soprattutto gli allevatori italiani, dalla posizione dominante di Lactalis. Come sarà fulminea a fermare sul nascere qualsiasi politica industriale o fiscale passi mai per la testa dei governanti italiani. Uscire dall'euro è forse rischioso sul breve, e un po' di terremoto per forza lo provoca. Ma potersi riappropriare delle leve del proprio governo e decidere da soli davvero non ha prezzo. E potrebbe diventare la vera occasione per l'Italia".

lunedì 11 aprile 2011

Tsunami Giappone: le vittime e i danni avrebbero potuto essere evitati.

(E.I.R. Strategic Alert) - Gli scienziati giapponesi avevano registrato segnali precursori di un forte terremoto già il 1 marzo, dieci giorni prima che si verificasse. Se ci fosse stato un ente governativo preposto, avrebbero potuto essere disposte misure di evacuazione e lo tsunami avrebbe mietuto molte meno vittime. Inoltre, i danni alla centrale di Fukushima sarebbero stati ridotti al minimo. L'allarme non avrebbe fermato lo tsunami e impedito la distruzione delle pompe, ma avrebbe permesso di spegnere i reattori dieci giorni e non dieci minuti prima dell'arrivo dell'onda, garantendo il regolare raffreddamento.
L'EIR ha appreso questa notizia dal prof. Pier Francesco Biagi, uno dei principali ricercatori al mondo sui precursori dei terremoti, il quale ha annunciato che i suoi colleghi giapponesi presenteranno i dati alla Assemblea Generale della European Geosciences Union, iniziata il 3 aprile a Vienna. Non è chiaro se gli scienziati giapponesi abbiano avvisato il governo e questo non abbia reagito, oppure se l'allarme abbia incontrato il solito scetticismo della comunità scientifica.
Gli scienziati italiani stanno attualmente raccogliendo e analizzando dati raccolti da una rete di trasmettitori sparsi per il mondo, già in funzione per altri usi. I dati riguardano l'aumento di attività elettromagnetica in anticipo sui terremoti, un fenomeno che permette già di prevedere il sisma e la regione dell'epicentro con una probabilità dell'80%.
I colleghi giapponesi del prof. Biagi disponevano di indicazioni simili già il 1 marzo, sulla base dei dati raccolti da un laboratorio di fisica del neutrino.
Biagi è d'accordo sulla proposta, avanzata da Lyndon LaRouche, di aumentare i finanziamenti dell'US National Earthquake Hazards Reduction Program e soprattutto di coinvolgere la NASA. Lo scienziato italiano suggerisce però di correggere l'errore di impostazione iniziale, quando fu stabilita una scadenza decennale per valutare i risultati della ricerca sulla prevenzione dei sismi. Non si può dire "tra dieci anni analizzeremo i risultati e sulla loro base decideremo se continuare i finanziamenti". Può darsi che nell'arco di dieci anni si raccolgano dati insufficienti, mentre bastano tre anni di densa attività sismica per raccoglierne in abbondanza.
Se fosse il capo della NASA e potesse decidere quali programmi finanziare sui precursori sismici, Biagi inizierebbe "un programma ben mirato di nano satelliti". Il primo satellite costerebbe un milione di euro, ed ogni satellite successivo solo 600 mila euro. In realtà si tratta di spiccioli, se paragonati alle cifre colossali sborsate per i salvataggi bancari, ma nessun governo al mondo è stato finora disposto a stanziarli. Gli italiani hanno provato, alcuni anni fa, a promuovere un programma europeo, ma non ci sono riusciti. I governi preferiscono finanziare altri programmi, come "l'accoppiamento degli orsi polari", ha osservato ironicamente.
Ci troviamo definitivamente in una fase di alto livello di attività sismica, ha affermato il prof. Biagi, e ovviamente i cicli sismici sono correlati all'attività solare.
C'è solo una nazione che ha mai mandato in orbita un satellite specificamente per la ricerca sui terremoti, ed è la Francia col satellite Demeter, i cui dati sono stati "interessantissimi".
La ricerca sui precursori viene attualmente svolta in pochi paesi, e questi sono, in ordine di dimensione dei programmi, Giappone, Italia, Grecia e Russia. Gli scienziati dei rispettivi paesi si incontrano regolarmente e coordinano la loro attività. Il problema è che nessuno di questi programmi ha finanziamenti pubblici, e i ricercatori devono arrangiarsi presso i privati, a volte con soluzioni ingegnose.
TIM: la tua mail in mobilità con il BlackBerry®

lunedì 4 aprile 2011

Sistema finanziario: anche il Sole ci chiede di passare ad un modello creditizio

La catastrofe naturale che ha colpito il Giappone lancia all'umanità intera una sfida storica.
Infatti, il terremoto giapponese dell'11 marzo è solo il più eclatante di una ben più ampia sequenza che ha visto: il 22 febbraio un terremoto di magnitudo 6.3 della scala Richter distruggere completamente la Christchurch in Nuova Zelanda, ed il 27 febbraio un terremoto di magnitudo 8.8 colpire la Cina.
Secondo autorevoli scienziati russi, inglesi, peruviani, ecc. vi sarebbe una relazione tra l'attività solare ed i terremoti terrestri. E' prevista un'intensissima attività solare fino al 2013 e questa potrebbe destabilizzare la “cintura di fuoco” del Pacifico che va approssimativamente dalla Nuova Zelanda, attraversa il Giappone, raggiunge l'Alaska, per poi scendere fino alla California ed a sud fino al Cile.
La scienza non è ancora in grado di spiegare questa relazione e dunque, sia la capacità previsionale che di prevenzione sono limitate.
La sfida che ci lanciano il nostro sistema galattico e quello solare giunge in un periodo storico che ci obbliga a parlare di un tipico caso di ironia della storia. Infatti, alla luce di un sistema politico-economico occidentale vittima del virus monetarista, per cui le nazioni potrebbero spendere solo ciò che hanno, oramai depredate della loro sovranità monetaria trasferita nelle mani delle banche centrali indipendenti, l'elevato rischio di grandi cataclismi che corre una buona parte dell'umanità, costringerà i nostri governanti ad annunciare: “Cari concittadini, dovremmo finanziare i nostri scienziati per comprendere meglio la relazione tra il nostro sistema terrestre e quello solare, per poter salvare molte vite umane, ma purtroppo non abbiamo i soldi con cui pagarli e dunque non possiamo fare altro che sperare che le previsioni fatte non si verifichino!”.
Il sistema americano di economia politica, così come fu in particolare applicato da Franklin Delano Roosevelt, prima e durante la seconda guerra mondiale, lanciò una provocazione simile a quella che oggi ci pone la natura: una nazione durante una stagione di guerra, non si pone problemi di bilancio, ma si affida al credito governativo per la produzione di materiale bellico, a prescindere dalle condizioni delle casse statali; altrimenti, dovrebbe comunicare alla propria popolazione che non resta altro che attendere che il nemico la conquisti! Allora, per l'autentico sistema americano di economia politica questo approccio deve essere utilizzato a maggior ragione in tempi di pace, per progetti funzionali al benessere della gente.
Dunque, ironia della storia, è il nostro stesso sistema solare che ci offre lo spunto per uscire dall'ingiusto ed anti-progressista sistema speculativo monetarista, per passare ad un sistema creditizio che ridia una reale sovranità economica agli stati. In realtà, sarebbe dovuto bastare il paradosso venuto a galla con la recente crisi finanziaria – lungi dall'esser terminata – manifestatasi in modo evidente dal 2007, per cui dopo decenni di politiche nazionali di austerità con contrazione della spesa per la sanità, l'istruzione, le infrastrutture, la giustizia, le pensioni, tutto d'un tratto, con la crisi delle banche “troppo grandi per poter fallire”, in soli tre anni si è proceduto a salvataggi, per cifre decine di volte superiori ai ricavati di tutte le privatizzazioni dell'impresa pubblica avviate dagli anni '70 in poi; conseguentemente, con i bilanci nazionali in situazioni ancor più precarie rispetto al pre-crisi, le popolazioni si sono dovute sentir dire: “Ed ora dobbiamo tagliare ancor di più la spesa per sanità, pensioni, scuola, infrastrutture!”. Così, non essendo bastato tutto ciò per farci riaccendere il lume della ragione, è la natura stessa che oggi invita l'umanità ad uscire da questo sistema che altro non può esser definito che oligarchico, per rimettere in piedi sistemi autenticamente repubblicani.
L'umanità, attraverso gli stati sovrani, oltre che di un sistema di infrastrutture e di abitazioni più congeniali a più elevati standard di civiltà, ha necessità dunque di esprimersi maggiormente nella scienza, aumentare di uno/due ordini di grandezza il numero dei ricercatori, e finanziare la comunità scientifica per indagare e comprendere, per esempio, le relazioni tra sistema galattico, solare a terrestre. Questa sfida sgombera così il campo da varie frodi concettuali che le teorie economiche liberiste-monetariste e l'ambientalismo anti-scientifico hanno contribuito a diffondere nella società negli ultimi quarant'anni: 1) è attraverso l'economia fisica che possiamo misurare l'economia in modo funzionale alle necessità ed alle aspirazioni di benessere dell'umanità, e non attraverso sistemi contabili di bilancio e sciocchi parametri come quelli imposti da Maastricht o dalle agenzie di rating; 2) l'esplorazione dello spazio, non è un qualcosa di innaturale, dispendioso ed inutile, piuttosto referenzia la progressiva evoluzione del genere umano nell'esercizio della sua naturale capacità cognitivo-creativa che, come tutte le fonti di conoscenza, è necessaria per l'evoluzione e la salvezza dell'uomo.
Si rende dunque necessario quanto prima il passaggio ad un nuovo ordine finanziario internazionale centrato sulla sovranità creditizia di ogni singola nazione, altrimenti, oltre ad assistere a continue rivolte di popolo, non potremo rispondere ai vari disastri che la natura ci preannuncia, non già per il “troppo progresso”, ma per la pochezza, per il suo ritardo in tanti settori e perché, in fondo, il progresso non è “mai abbastanza”.

Claudio Giudici

Nord-Africa: la crisi ha il suo grilletto nel pacchetto di salvataggio UE di maggio

Firenze, 30 marzo 2011 - In questi giorni il dibattito è concentrato sulla crisi nord-africana ed in particolare su quella libica. Sedicenti esperti ed osservatori improvvisati, solo oggi si accorgono di quanto dispotico fosse il regime di Gheddafi; differentemente, l'uomo della strada il più delle volte comprende quanta ipocrisia vi sia dietro tale semplicistica lettura, visto che il Nord-Africa, come gran parte delle aree sottosviluppate del pianeta, è guidato da svariati decenni da dispotici governi fantoccio.
La vera domanda che in questo momento dobbiamo porci, è perchè quello che è stato definito “il 1989 del Nord-Africa” scoppi proprio oggi.
È da rifiutare, in quanto al massimo secondaria, la tesi per cui siano stati i moderni mezzi di comunicazione, internet e social network, ad aver spinto le popolazioni nord-africane a scendere in piazza. Infatti, nonostante l'assenza di strumenti di osservazione delle condizioni di vita del resto del mondo, di rivoluzioni è ricca la storia. Ciò a cui invece stiamo assistendo è un processo da "sciopero di massa" (così come lo intese Rosa Luxemburg), che contagia aree sviluppate ed in via di sviluppo, ma che in ogni caso si trovano sotto un regime di mercato deregolamentato, senza alcuna forma di protezione a salvaguardia né del tenore di vita delle popolazioni né delle esigenze di vita primarie.
Altrettanto, l'idea per cui sarebbe l'aumento della domanda proveniente, in particolare dalla Cina, ad aver fatto scoppiare l'attuale fase iperinflazionistica sulle materie prime e sui generi alimentari, è priva di ogni fondamento, in quanto non vi è alcuna sistematica relazione tra tali fattori (proprio gli ultimi anni di crisi economico-finanziaria globale ce lo dimostrano). Infatti, l'aumento della domanda proveniente dalle economie in via di sviluppo è stato “neutralizzato” dal crollo della domanda delle economie avanzate, tanto da far temperare o addirittura rendere negativa (come nel 2009) la crescita del p.i.l. globale. Nonostante ciò, i prezzi delle materie prime e dei generi alimentari sono progressivamente cresciuti in seguito a vere e proprie scorribande inflazionistiche, da attribuire esclusivamente a fenomeni speculativi generati dall'enorme massa di liquidità che le banche centrali hanno messo a disposizione delle banche d'affari. Infatti, dall'adozione nel maggio 2010 da parte dell'Unione Europea del mega pacchetto di salvataggio da quasi un trilione di euro, il paniere cerealicolo è cresciuto di oltre il 50%, il paniere metallifero è cresciuto di circa il 43%, e il paniere dei frutti esotici è cresciuto di quasi il 120%! Lo stesso fenomeno è possibile rilevarlo in seguito ai mega salvataggi adottati dalla Federal Reserve americana.
Paul Farrell, ex guru degli investimenti in Morgan Stanley, ha scritto il 15 febbraio su MarketWatch che "il governatore della Federal Reserve Ben Bernanke è l'essere umano più pericoloso sulla terra, molto più pericoloso di Hosni Mubarak, il dittatore trentennale dell'Egitto. Bernanke è alla guida di una dittatura monetaria che provocherà l'imminente terzo crac del XXI secolo".
Così, la liquidità costantemente riversata dalle banche centrali USA, UE, inglese e giapponese nel sistema finanziario, alimenta la speculazione sulle derrate alimentari e sulle materie prime. L'UE stessa ha pubblicato le seguenti cifre: gli "investimenti" nei mercati delle commodities erano 15 miliardi di dollari nel 2003, essi sono schizzati a 300 miliardi nel 2008 e da allora continuano a salire. Alla borsa mercantile di Chicago, l'85% degli operatori si limita esclusivamente a speculare sui prodotti finanziari senza avere nessuna attività reale nel settore alimentare.
Nei giorni in cui le popolazioni del Mediterraneo del Sud e del Sud-ovest asiatico vanno ribellandosi nei confronti dello stato d'indigenza a cui sono costrette, la Commissione di Inchiesta sulla Crisi Finanziaria, creata dal Congresso USA per stabilire le cause del crac finanziario del 2007-2008, ha fatto la storia. Il suo rapporto, noto come Rapporto Angelides, fornisce un resoconto straordinariamente veritiero del processo decennale di deregulation bancaria, "shadow banking" e speculazione in derivati finanziari che ha portato al crac globale. Gli stessi meccanismi che hanno fatto scoppiare la più grave crisi finanziaria dal 1929, sono oggi la causa della crescita iperinflazionistica dei prezzi che hanno violato quell'equilibrio che consentiva lo stato di sussistenza delle popolazioni, entrate in crisi in questi primi mesi del 2011.
Invero, già nel 2008 almeno 33 Stati furono interessati da fenomeni di "sciopero di massa", di protesta popolare, con livelli dei prezzi anche allora in forte e simile ascesa.
L'economista americano Lyndon LaRouche, che da anni ricostruisce il processo di progressiva disintegrazione dell'economia mondiale a favore dei processi speculativi, ha rivolto un appello per mettere fine alla speculazione sul cibo, che è stato echeggiato negli ultimi due anni dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti. Ora sembra che si stiano svegliando anche i suoi colleghi europei. Un avvertimento simile è giunto dal ministro tedesco dell'Agricoltura, Ilse Aigner, durante il suo discorso di apertura alla fiera agricola annuale a Berlino, il 20 gennaio: "Le rivolte per il cibo e la destabilizzazione dei paesi del Nord Africa", ha dichiarato, "indicano la necessità di regolamentare e proteggere i beni agricoli dagli speculatori". La signora Aigner e i ministri dell'Agricoltura degli altri 26 paesi dell'UE hanno inviato una richiesta alla Commissione Europea affinché appronti tali regole: ma la Commissione si è rifiutata, con l'assurda motivazione che non è la speculazione a causare l'inflazione dei prezzi del cibo! La proposta di bandire la speculazione sul cibo è stata messa all'ordine del giorno del G20 iniziato il 18 febbraio a Parigi. Il ministro delle Finanze indonesiano Agus Martowardojo ha dichiarato al G20: "Auspichiamo che il forum del G20 eserciti pressioni sui mercati in modo che non ci siano più speculatori, o industrie finanziarie o non finanziarie, che speculano sulle derrate alimentari". Il ministro francese dell'Agricoltura Bruno Le Maire ha confermato la necessità di un limite alla speculazione: "Va imposto. È inaccettabile che ci siano persone che creano artificialmente carenze di cibo e si approprino di questa o quella quantità di derrate alimentari al solo scopo di fare dei profitti, mentre milioni di persone patiscono la fame".
Se politici e mezzi d'informazione non si adopereranno affinchè queste sconcertanti verità siano di pubblico dominio, essi stessi saranno complici del disastro verso cui va dirigendosi l'umanità, continuando a privilegiare la speculazione piuttosto che il lavoro e la produzione economica reale.
Claudio Giudici
(Movimento Internazionale per i Diritti Civili - Solidarietà)
Nicola Oliva
(Consigliere comunale PD di Prato)

mercoledì 30 marzo 2011

Attività tettoniche: gli esperti mettono in guardia dal "Big One"

(EIR Strategic Alert) - Alcuni esperti impegnati ad indagare i rapporti tra i lampi solari, i movimenti nella galassia e fenomeni terrestri, prevedono l'intensificazione dell'attività tettonica e vulcanica nel prossimo periodo.
Il vicedirettore dell'Istituto di Geografia dell'Accademia delle Scienze Russa, Arkadi Tishkov, ha notato in una recente intervista con la Voice of Russia che il terremoto giapponese potrebbe essere stato provocato dalla Luna e dal Sole. La luna è attualmente a soli 350.000 chilometri di distanza, la più breve da un decennio, mentre l'attività solare è al culmine negli ultimi anni, come indicato da un'esplosione che ha causato una potente tempesta magnetica alla fine di febbraio.
Altri geologi russi sostengono che nuove scosse sotterranee potrebbero essere in vista non solo per il Giappone, ma anche per le aree russe vicine (Sakhalin, Kamchatka, e le isole Kurili).
Dalla Gran Bretagna, l'astrofisico Piers Corbyn riferisce che "l'attività vulcanica e sismica e le variazioni metereologiche determinate dal sole e dalla luna, sono le più estreme da 66 anni a questa parte e molto probabilmente il doppio più ampie di quelle precedenti" e che la West Coast degli Stati Uniti è un'area a rischio.
Stando a Corbyn, è stato il lampo solare di Classe X del 10 marzo 2011 a causare l'impatto sulla terra da parte di una espulsione di materia coronale registrata dalla NASA. Egli ritiene che questo, a sua volta, abbia scatenato il megaterremoto in Giappone il giorno dopo.
Se si verificasse un terremoto sulla costa pacifica degli Stati Uniti, esso colpirebbe la faglia di Sant'Andrea in California e la zona di subduzione della Cascadia, un'area di 965 chilometri, a 80 chilometri dalla costa, che va dalla California settentrionale alla British Columbia.
Per il sismologo dell'Università del Colorado Roger Bilham, il megaterremoto in Giappone è quasi un modello per il sisma di magnitudo 9.0 che gli scienziati prevedono lungo la costa dell'Oregon e dello stato di Washington. Un avvertimento simile è stato lanciato da Robert S. Yeats, un docente di geologia dell'Università Statale dell'Oregon in pensione. Visto che la zona di subduzione della Cascadia è sott'acqua, produrrebbe probabilmente uno tsunami, ha detto.
Contrariamente al Giappone, tuttavia, che ha costruito difese ammirevoli contro i terremoti negli ultimi decenni, i preparativi in Nord America sono molto indietro, e sono stati anche fatti oggetto della mannaia dei tagli alle spese. In effetti, la finanziaria approvata dal Congresso imporrebbe una riduzione del 16% ai fondi per la manutenzione e la gestione dei sistemi di allarme anti-tsunami, per non parlare dei sistemi di rilevamento via satellite per gli uragani, come ha riferito il 17 marzo alla Commissione Scienza e Tecnologia della Camera il ministro del Commercio Gary Locke.
Quanto al Presidente Obama, le sue proposte per ridurre il bilancio prendono di mira i programmi più avanzati della NASA, come l'esplorazione spaziale con equipaggio umano. Un esempio: ha ordinato l'eliminazione del programma di un radar satellitare che avrebbe aumentato la capacità di rilevare e reagire a eruzioni sismiche. Inoltre, Obama è decisamente contrario all'energia di fusione termonucleare.
Nel 2010, stando allo
Statesman Journal dell'Oregon, il Dipartimento di Geologia e Industrie Minerarie ha pubblicato un rapporto sugli effetti di un terremoto nella zona di subduzione della Cascadia in cui si afferma che "in un grosso terremoto, molte delle nostre linee vitali, quali le principali autostrade, i terminali per il rifornimento di carburante, le linee elettriche ed i sistemi di telecomunicazioni non saranno in grado di fornire i servizi previsti".
TIM: la tua mail in mobilità con il BlackBerry®